sabato 27 agosto 2016

Finanza Ombra. L'intervento di Carmine Tabarro

Segue il documento guida originale che il dott. Tabarro ci ha gentilmente concesso per condividere la sua lezione.

Buongiorno a tutti.

Grazie per questo invito (un grazie particolare a don Sandro Fadda), perché giornate come queste rientrano nel campo della mia ricerca sull’Economia di Civile, quindi sono un sostenitore culturale, ideale, di iniziative concrete come le  vostre. 
Desidero ringraziare perché, con l’affermarsi della società moderna l’idea stessa di bene comune e di “corpo sociale”  è andata in crisi

L’idea classica di bene comune, da Aristotele a San Tommaso, immagina una comunità, un popolo, come un corpo: il  bene del corpo coincide con il bene delle singole membra e non viceversa. Da qui la definizione classica di bene comune, che ritroviamo anche nella Dsc (Dsc) oggi, “Il bene di tutti e di ciascuno”: il bene di ogni membro del corpo è direttamente il bene di tutte le altre membra e del corpo intero. La filosofia utilitaristica che oggi sembra aver avuto la meglio opera una cesura radicale tra bene comune e bene totale a vantaggio di quest’ultimo.
Con l’affermarsi del postmoderno  anche i residui concetti di bene comune, di matrice cattolici-comunitari, che come un fiume carsico, dal XII secolo con la scuola economica francescana, sono stati travolti  dal tecnonichilismo. Per questo sono grato a  “giornate”  di riflessione, di studio, di formazione teorico-pratiche, di scambio culturale transdisciplinare, perché a mio avviso sono capaci  di innescare quei processi virtuosi che riportano al centro della società civile, della politica, dell’economia ecc., la rivalutazione e  la rilettura dei beni comuni nell’epoca del postmoderno. Inoltre  giornate di studio e di riflessione sulla società civile, sulla politica, sull’economia alla luce della Dsc sono un laboratorio, un luogo proficuo per far crescere un pensiero orientante capace di produrre proposte concrete per far crescere una società, una politica, una economia civile e risvegliare i corpi intermedi della società, i cittadini,  del nostro Paese affinché possano dispiegare tutta la loro potenzialità non ancora completamente dispiegata al servizio dei beni comuni. Il tema che mi ha affidato don Sandro, la finanza ombra  richiederebbe diversi giornate di studio per sviluppare solo i vari aspetti e i temi (riciclaggio, antiriciclaggio, gioco d’azzardo, paradisi fiscali, banche ombra cfr Cina). Pertanto, mi soffermerò solo sulla dimensione più conosciuta dal grande pubblico della finanza ombra.

0.Premessa

Permettetemi una premessa, gli economisti civili, nell’analizzare i problemi che sono chiamati a valutare, non si limitano ad analizzare l’economia come “scienza triste”’, ma attraverso il dialogo con le altre scienze umane vogliamo che questa torni ad essere la scienza della felicità pubblica  di cui l’abate Antonio Genovesi è stato il padre. Genovesi affermava: “Si ricordi l’homo homini lupus è un pensiero profondamente errato. L’uomo è homo homini natura amicus, l’uomo è per natura amico degli altri uomini, è un essere relazionale, è un essere votato alla felicità, alla felicità sociale”. 
Ma oggi, è ancora possibile parlare di economia come scienza della felicità pubblica?
Per millenni la nostra civiltà si è nutrita su due pilastri culturali: il doppio comandamento che ha alimentato l’ethos ebraico-cristiano: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso; e sul pilastro della filosofia nichilista che ha in Gorgia il suo padre filosofico (per il quale "nulla è; se anche fosse, non sarebbe conoscibile; se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile”).
Con l’affermarsi della scienza moderna prima, e poi a partire dall’Ottocento, questo ethos culturale trova la sua affermazione in Nietzsche che definisce il nichilismo, “il più inquietante degli ospiti”. Sempre Nietzsche scrive che nel: “Nichilismo: manca lo scopo, manca il perché, tutti i valori si svalutano”.  
Dal canto suo Heidegger afferma che il nichilismo “gira per la casa ed è inutile metterlo alla porta, ma bisogna guardarlo davvero in faccia”. 
Tutto questo ha fatto dire a Nietzsche che “Dio è morto”, con l’affermazione della società postmoderna è tempo di dire quello che tutti vediamo, “È morto anche il prossimo”.
Siamo diventati indifferenti nei confronti del prossimo, non riusciamo più a farci prossimi a nessuno.
La parola ebraica réac nel Levitico, e quella greca plesíos, nel Vangelo di Luca, vogliono dire proprio questo: “l’altro che ti sta vicino”. 
Purtroppo quello a cui stiamo assistendo in tutti i campi dell’umano, — in modo così prossimo e sconvolgente, in particolare nelle ultime settimane, ci svela il vero volto della nostra epoca che è segnata dalla “paura e dall’incertezza”, che i sociologi hanno declinato come: “società liquida”, “società del rischio”, società dei “non luoghi”, le cui eziopatologie sono da ricercare  nell’affermazione della cultura della “mancanza di senso”, dall’affermarsi di quello che Nietzsche chiama "il più inquietante fra tutti gli ospiti: il nichilismo”.
Come detto, per l'intero arco della storia della filosofia, l’”ospite inquietante” ha fatto sempre sentire la sua presenza, ma solo oggi, solo nel nostro tempo, questa presenza culturale è divenuto il clima biologico della terra, che sta generando lo spaesamento di tutti i paesaggi  che la nostra civiltà (tra cadute e riprese) ha di volta in volta faticosamente costruito per abitare la terra in modo più pieno e migliore. 

Ma perché proprio oggi? 

Le conseguenze a livello culturale

Nel mondo governato dal tecnonichlismo, l'efficacia degli imperativi morali è pari a quella dei freni di bicicletta montati su un jumbo. 
Nel dizionario della cultura tecnonichilista, concetti come il personalismo cristiano, il bene comune, l’umanesimo integrale, la sussidiarietà, i valori, le virtù, la morale, sono stati espulsi, non hanno diritto di cittadinanza.
Il paradigma tecnico-scientifico, infatti, non si propone alcun fine valoriale da realizzare, ma solo l’utilità dei risultati da raggiungere come esiti delle sue procedure. Questa abolizione dei fini destituisce, fin dalle sue fondamenta, ogni possibile ricerca di senso per l’uomo l'occidentale, cresciuto nella "cultura del senso" secondo la quale la vita è vivibile solo se inscritta in un orizzonte di “senso”, di “significati”. 
A questo tipo di domanda il tecnonichilismo non risponde, perché la categoria del senso non appartiene alle sue competenze. Nella cultura contemporanea la tecnica è diventata la forma del mondo, l'ultimo orizzonte al di là di tutti gli orizzonti, le domande intorno al senso vagano affannose e senza risposta. Una cultura dominata dal pensiero del “non senso” che sta generando la crisi di civiltà che stiamo vivendo con tutte le sue tristi conseguenze. 

Le conseguenze a livello sociale

L’affermazione del tecnonichilismo ha profondamente indebolito i legami interpersonali, ha reso “liquide” le nostre  comunità, che sempre più spesso si stanno trasformando in un “comunitarismo tribale” come frutto patologico dell'io e del noi, che esalta il proprio egoismo ed ha sostituito la solidarietà e fraternità umana con la competizione senza limiti, fino a  ad affidare nelle mani di singoli la risoluzione di problemi complessi e di ampia rilevanza sociale. Non solo.

Non è un caso se, alla fine dell’Ottocento, Freud inventa la psicoanalisi, che si diffonde prepotentemente nel secolo XX. Freud evidenzia come l’isolamento dell’uomo avanza, solitudine che lo  rende patologico. Le persone più sensibili sono lacerate da una sofferenza cui si assegna il nome di nevrosi. Attraverso la psicoanalisi si cerca di ricostruire un rapporto umano, non con “il prossimo”, con l’altro, ma con un professionista. L’uomo invece, ha bisogno di vicinanza, di prossimità in maniera così violenta, che tra paziente e professionista viene spesso a crearsi un eccesso di intimità: questo è chiamato transfert e considerato a sua volta nevrotico. Freud suggerisce tecniche per contenerlo. Fa stendere il paziente su un divano per allontanare il suo sguardo: massima espressione dell’indifferenza e/o della paura dell’altro.
In questo clima culturale liquido e senza regole se non la ricchezza elogiatrice di pochi, nasce e si sviluppa la finanza ombra.

2.Finanza ombra

Una premessa metodologica: nella seconda parte del mio intervento sentirete parlare di banchieri e finanza ombra, perché come vedremo le due figure non sempre collimano.
Mentre per i primi esiste, come vedremo delle forme di controllo, nel caso della finanza ombra i flussi finanziari di capitale che circolano sono al di fuori della pur modesta presa dei regolatori, ossia dell’autorità di vigilanza. 
Inizio questa seconda parte del mio intervento, parafrasando la frase di Jacques Laffitte (banchiere e politico), pronunciata alla fine della Rivoluzione francese nel Luglio del 1830, molto attuale anche nel nostro tempo: “D’ora innanzi regneranno i banchieri e istituzioni finanziarie ombra”. Ancora oggi, i banchieri e soprattutto come vedremo le istituzioni che governano la finanza ombra, dominano la politica nel mondo, non perché abbiano sopraffatto la politica, ma perché la politica ha aperto loro le porte. 
Sto scrivendo questo intervento sabato 30.7. giorno seguente agli stress test della BCE ed (abbiamo alle spalle la crisi finanziaria del 2007) è possiamo sicuramente affermare che la storia non ha insegnato nulla e la crisi strutturale non ha fatto altro che ingrandirsi con il tempo, sebbene, va ricordato, nel corso del Novecento ad essa sia stato posto rimedio (sia pure per  un breve periodo): il New Deal rooseveltiano fu in primo luogo un riuscito imbrigliamento della finanza, la cui sregolatezza aveva provocato la crisi del 1929.  Questo è un segno del fatto che la politica, oltre ad aprire le porte alla finanza, quando vuole riesce anche a chiuderle.
Facciamo un ulteriore passo in avanti: sentiamo sempre più spesso parlare di shadow banking negli ambienti finanziari internazionali.  

2.1.Ma che  cos'è lo shadow banking? 

Il sistema bancario ombra raggruppa una serie di istituzioni e di pratiche basate sull'utilizzo di derivati finanziari che si collocano al di fuori dalla regolamentazione e dell'attenzione pubblica. Quest'assenza di regole ha facilitato la sua rapida espansione.
L’espressione coniata dal Financial Times e dalla Banca Mondiale sta ad indicare gli strumenti del mondo finanziario completamente diversi  da quelli che vengono normalmente utilizzati nei canali tradizionali. 

Volendo elencare nello specifico tali strumenti dovremmo così parlare del private equity, del venture capital e del  crowdfunding, sistemi bancari paralleli 
E' utile dare una breve definizione degli strumenti di cui sopra: 

  • Private Equity: è un'attività finanziaria mediante la quale un investitore istituzionale rileva quote di una società definita target (ossia obiettivo) , ciò avviene sia acquisendo azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione apportando nuovi capitali all'interno della target.
  • Venture Capital: Il venture capital è l'apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Un fondo di venture capital investe principalmente in capitale finanziario nelle imprese che sono troppo rischiose per i mercati dei capitali standard o dei prestiti bancari.
  • Crowdfunding: o finanziamento collettivo in italiano, è un processo collaborativo di un gruppo di persone che utilizza il proprio denaro in comune per sostenere gli sforzi di persone e organizzazioni. È una pratica di micro-finanziamento dal basso che mobilita persone e risorse. Il termine trae la propria origine dal crowdsourcing, processo di sviluppo collettivo di un prodotto.


Questi innovativi e non convenzionali strumenti finanziari hanno creato una grande quantità di denaro che, sorprendentemente, e a differenza di quanto si può affermare del sistema bancario tradizionale, non cessa di crescere.

2.2 Dark pools

Ma procediamo con ordine
Una prima riflessione.
Per prima cosa, la crisi finanziaria iniziata nell’estate del 2007 negli Usa e poi diffusasi per contagio nel resto del mondo, ha natura sistemica. 
La crisi finanziaria del 2007 non è una crisi congiunturale né una crisi regionale, ma una crisi strutturale.  
Essa è il punto di arrivo di un processo che da oltre quarant’anni ha modificato alla radice il modo di essere e di funzionare anche della finanza, minando così le basi stesse di quell’ordine sociale liberale che è la cifra inequivocabile del modello di civiltà occidentale. 
Due sono gli elementi strutturali della crisi: quelle prossime, che dicono delle peculiarità specifiche assunte in tempi recenti dai mercati finanziari e quelle profonde, che chiamano in causa gli aspetti di matrice culturale di cui ho detto in premessa che ha accompagnato la transizione dal capitalismo industriale a quello finanziario. Da quando ha iniziato a prendere forma quel fenomeno di portata epocale che chiamiamo globalizzazione, la finanza grazie anche alla rivoluzione tecnologica, non solamente ha accresciuto costantemente la sua quota di attività in ambito economico, ma ha progressivamente contribuito a modificare sia le mappe cognitive delle persone sia il loro sistema di valori. 

E’ a quest’ultimo aspetto che si fa riferimento quando oggi si parla di finanziarizzazione (financialization) della società. “Finanza”, letteralmente, è tutto ciò che ha un fine; se questo fuoriesce dal suo alveo storico, la finanza non può che generare effetti perversi.
Un secondo punto. Con l’avvento del postmoderno, il mix di globalizzazione e tecnonichilismo finanziario, ha travolto il potere degli Stati.   
Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. 
Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. 
I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo… 
Questi tipo di globalizzazione anarchica ha trasformato le multinazionali e i centri di potere occulti, in un “non-luogo” del diritto,  lasciando i mercati finanziari e i loro protagonisti, che ne hanno approfittato, privi di regole, di massimizzare i profitti a danno del bene comune. 
Ogni singolo potere, si fa beffa facilmente delle regole e del diritto locali e a anche dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia ecc.
In tal senso, Benedetto XVI nella Caritas in veritate, denuncia il tipo di  globalizzazione (CV, n. 33), considerata non solo un fenomeno economico, ma anche culturale. Il Papa non vuole che sia interpretata con un atteggiamento fatalistico, che ci condanna a vivere in balia di forze anonime e incontrollate, ma come un processo guidato dalle decisioni di esseri umani (CV, n. 42). 
I riferimenti alla crisi presenti nella enciclica ci consentono, a ogni modo, di ricostruirne una visione sufficientemente sistematica. Anche se presentata come crisi economico-finanziaria, essa non è solo il risultato di eventi verificatisi nel mondo della finanza. Bisogna andare più in profondità e considerarla come un’espressione della gravità di un processo giunto ai suoi esiti estremi, le cui radici storiche erano già state denunciate dalla Populorum progressio
Un aspetto della crisi che la CV sottolinea con forza è il venir meno della fiducia, che ha colpito in particolare il mondo della finanza (CV, n. 35). In contesti diversi vengono denunciati altri due aspetti problematici: la speculazione, che cerca unicamente il guadagno a breve termine (CV, n. 40), e l’abuso di  sofisticati strumenti finanziari (CV, n. 65). Il papa emerito propone meritoriamente, ma per ora ancora poco ascoltato, un’ampia riforma della governo mondiale della finanza“di fronte all’inarrestabile crescita dell’interdipendenza mondiale, […] anche in presenza di una recessione altrettanto planetaria”. CV n.67
Una terza riflessione. Il capitalismo finanziario ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali (spesso virtuali e a leva) da un posto all’altro e guadagnando sulla speculazione di beni, servizi, merci, valute, ecc. 

Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, alla finanza ombra. 
-Crisi sistemica
Entriamo nello specifico delle cause prossime, tecniche e politiche della crisi sistematica iniziata non nel 2007 ma dagli anni settanta del secolo scorso che trovano nell’eccesso di liquidità e dalla mancanza di regole la loro eziopatologia.
Difatti dalla petrolifera degli anni ’70 del secolo scorso, a quelle di Messico, Brasile, Russia e Corea degli anni ’80, e ancora quelle di Messico, Thailandia e Argentina (anni ’90). Tutte rappresentano un precedente della crisi scoppiata nel 2007 e sono accomunate da cause identiche: creazione smodata di denaro da parte delle banche private e dalla mancanza di regole alla finanza ombra. Identiche sono state anche le conseguenze: aumento delle disuguaglianze, non solo nei Paesi in via di sviluppo ma anche in quelli sviluppati, errori tecnici si sommano alle responsabilità politiche e morali.
E’ vero che la disuguaglianza è antica quanto la società, perché differenze di potere e di ricchezza hanno sempre caratterizzato la vita dell’uomo all’interno di una comunità. La storia ci ha mostrato tre tipi di disuguaglianze: quella tra individui di una stessa comunità (o Paese), quella tra nazioni e quella diventata (postmoderna) più rilevante di recente: la disuguaglianza globale tra tutti i cittadini del mondo.
Pertanto è indispensabile una riforma radicale del sistema finanziario, di cui parlano in molti oggi, ma di fatto mancano sia la volontà politica sia la capacità da parte dei politici di comprendere quale enorme problema abbiamo dinanzi, per cui le riforme di cui si parla a livello di G7 e G20,  sono del tutto inadeguate. 
In altre parole, senza una riforma radicale del sistema finanziario, che dovrebbe essere il primo obiettivo delle istituzioni politiche internazionali, visto che di lì nascono i nostri  guai e senza interventi risolutivi, le cose andranno sempre peggio sul fronte del lavoro, dell’economia, dello sviluppo,  dello stato sociale.
-La crescita dei derivati nel periodo pre-crisi
Nati come strumenti di copertura del rischio di credito, i derivati hanno conosciuto una espansione imponente nel corso degli ultimi anni: da circa 100.000 miliardi di dollari nel 2001 a oltre 600.000 miliardi alla fine del 2007. 
In termini relativi, la crescita più consistente è stata quella dei CDS (Credit default swap), passati, nello stesso periodo, da 750 miliardi di dollari a circa 59.000 miliardi – quasi quattro volte il PIL USA. 
-Dopo quasi dieci anni come vanno le cose? 
Il giornalista economico americano, Michael Snyder 2014, ha fatto uno studio sull'ultimo rapporto trimestrale di un ente pubblico di controllo delle banche Usa, l'Office of the Comptroller of the Currency (Occ). Nelle tabelle allegate al rapporto, l'Occ rivela a quanto ammontano le esposizioni ai derivati delle maggiori banche Usa. 

Tenetevi forte: ciascuna delle prime cinque banche ha un'esposizione ai derivati superiore a 40 mila miliardi di dollari (cioè 40 trilioni). Per avere un'idea di quanto sia grande il loro azzardo morale, basta un solo paragone: l'intero debito nazionale del Tesoro degli Stati Uniti è di 17.700 miliardi di dollari (17,7 trilioni), cioè meno della metà dell'esposizione ai derivati di una singola banca.
Il primato di questa follia spetta alla JP Morgan Chase, che, a fronte di asset complessivi propri per appena 2,5 trilioni, ha un'esposizione ai derivati di 67 trilioni di dollari. Seguono: Citibank, con un'esposizione di 60 trilioni (1,9 trilioni di asset propri); Goldman Sachs con 54 trilioni di esposizione contro meno di un trilione di asset propri; Bank of America con 54 trilioni di rischi sui derivati contro 2,1 trilioni di asset; Morgan Stanley con oltre 44 trilioni di esposizione a fronte di soli 831 milioni di dollari di asset propri.
A differenza delle azioni e delle obbligazioni, scrive Morgan Stanley nel suo blog, “i derivati non rappresentano investimenti in nulla: sono solo scommesse su ciò che accadrà in futuro”. 
Praticamente la drammatica e recente storia non ha insegnato nulla: la finanza è governata con le logiche del gioco d'azzardo legalizzato, e le banche too big to fail hanno trasformato in maniera strutturale Wall Street nel maggior casinò nella storia del pianeta. Quando questa bolla scoppierà (e scoppierà sicuramente), il dolore che causerà per l'economia globale sarà maggiore di quanto le parole possano descrivere.
Quale sia l'ammontare mondiale dei contratti in derivati, non essendo previsto l'obbligo della loro registrazione, è un mistero.
Il New York Times,  indica in 280 trilioni di dollari i derivati che sarebbero sui libri contabili delle maggiori banche Usa. La seconda stima è della Banca dei Regolamenti Internazionali, che stima in 710 trilioni di dollari il totale mondiale, “somma che ha dell'incredibile”. 
Dobbiamo dire che se è vero che su queste scommesse, le grandi banche hanno fatto enormi profitti in questi anni è altrettanto vero che hanno realizzato anche enormi perdite a danno della collettività con gli enormi e inevitabili interventi statali. 
Ancora un dato: il 28 luglio scorso uno studio di Mediobanca su un campione di 66 banche internazionali (di cui 29 europee, quasi la metà del totale attivo di bilancio) rivela che l’esposizione al rischio di mercato delle banche è ancora molto elevata. 
Il rischio derivati pesa sul capitale netto delle banche europee per il 38%,  26% giapponesi, 18,5% Stati Uniti.
-Tra le prime dieci banche a maggior rischio derivati sette sono europee e tre degli Stati Uniti.
Credit Suisse (87,9% primo posto su capitale netto), Deutsche Bank (46,6% su capitale netto), Barclays 51,5%, Royal Bank of Scotland 30,6%;BNP Paribas 52,1%; Hsbc bank 15,9%; Societè Generale 79,3%.
Il fair value dei derivati in portafoglio delle banche europee alla fine del 2014 era di quasi 7 trilioni di euro, circa il doppio degli Stati Uniti

Inoltre, le attività di livello tre (asset illiquidi, privi di mercato e valutati in modo discrezionale dai singoli istituti) rappresentavano il 20,6 per cento del patrimonio complessivo, contro il 13,1 per cento delle banche americane. 
E si badi che questi dati sono fortemente influenzati dalle grandi banche francesi, tedesche e inglesi che sono ancora orientate all’attività di investment banking.
Questi dati dimostrano non solo che c’è ancora molto da fare per portare chiarezza nei bilanci bancari europei, ma anche che i colossi del credito dei Paesi centrali e del Regno Unito non hanno ancora definito una strategia adeguata alla nuova realtà del dopo crisi. Paul Tucker, già responsabile della vigilanza britannica e ora a capo del Systemic Risk Board, ha detto che occorre almeno una generazione per adattarsi al “new normal” perché siamo di fronte ad una svolta epocale. Il problema è che dall’inizio dell’ultima pagina della crisi sono trascorsi ormai circa dieci anni e  il recente studio di Mediobanca ci dimostrano che assai poco è cambiato. 
-Un rischio sistemico si aggira per l’Europa e per il mondo.
Dettaglio importante per noi europei: Deutsche Bank, come un super-hedge fund, ha emesso derivati per 75mila miliardi di euro, 20 volte il Pil tedesco, quasi uguale al Pil mondiale.
Dei 75mila miliardi di euro di derivati, nel suo bilancio attuale pesano 32 miliardi di euro di derivati ad alto rischio e un'altissima leva finanziaria: fatti due conti, anche un calo del 4% del valore degli attivi potrebbe azzerare il capitale del colosso tedesco. Da anni tiene a bilancio ingenti quantità di titoli tossici classificati di livello 3. Ossia strumenti finanziari a cui non si riesce a dare un prezzo perché non trattati sui mercati e non equiparabili ad altri prodotti simili che invece lo sono. A quel punto è la stessa banca a decidere, attraverso dei modelli interni e con ampio margine di discrezionalità, quale valore attribuire a questi titoli. 
Davanti a queste cifre, gli investitori hanno quasi dimezzato il valore di Deutsche Bank, mentre il Governo tedesco ha lanciato un'imponente guerra lampo per difendere il simbolo della potenza finanziaria nazionale. anche la Commerzbank è fortemente esposta sui derivati. 
Il 30 giugno scorso le azioni della Deutsche Bank hanno toccato i minimi storici a 12,83 euro. Il Fondo monetario internazionale ha definito Deutsche quella che, tra le grandi banche, “più di tutte contribuisce ai rischi sistemici”. 
Le sei maggiori Landesbanken tedesche, dopo aver bruciato agli inizi della crisi un terzo del loro patrimonio per aver investito nei titoli strutturati americani, hanno prodotto negli ultimi sette anni un modestissimo utile aggregato, pari allo 0,2 per cento dei ricavi, e hanno chiuso in rosso l’esercizio 2015. 

2.2 Dark pools

Tra gli strumenti innovativi della finanza ombra un ruolo sempre maggiore lo sta ricoprendo la dark pools (letteralmente, “piscine oscure”)
Sono gigantesche piattaforme finanziarie anche queste non trasparenti, esterne ai circuiti regolamentati. 
Queste piattaforme finanziarie non espongono pubblicamente i prezzi. 
Queste piattaforme vengono utilizzate dai grandi investitori istituzionali per concludere enormi transazioni nel più totale anonimato. Con il grande vantaggio, rispetto alle normali Borse, di minimizzare i costi della negoziazione e lo stesso impatto sul mercato (il cosiddetto market impact). 
Questo perché quando un operatore istituzionale deve eseguire un ordine di grandi dimensioni, finisce con il muovere il mercato a suo sfavore: acquistando in enormi quantità provoca un rialzo delle quotazioni, mentre se vende i suoi maxi ordini trascinano i prezzi al ribasso. Una dinamica che si fa sentire in particolare su titoli poco liquidi, quelli per esempio di società a media o bassa capitalizzazione. Nelle dark pools tutto questo invece succede in misura molto minore, perché non si sa chi sta effettuando la transazione e a che prezzo. Ci si muove, appunto, nell’oscurità.
Chi le ha messe in piedi 
Tutte le grandi banche internazionali hanno le loro dark pools. Una ricerca di Bloomberg Intelligence, basata su dati Finra e condotta il mese scorso, rivela che le maggiori appartengono a Ubs (14,4% del totale), Credit Suisse (13,6%), IEX (10,7%, l’unico non essere un grande istituto di credito), Deutsche Bank (7,6%), Morgan Stanley (7,2%), Jp Morgan Chase (4,9%), Merril Lynch (4,8%) e Barclays (3,9%). Il loro peso, cresciuto di anno in anno, nel 2015 è arrivato a rappresentare il 7,22% del valore degli scambi sulle Borse europee (dati Batz Europe), superando di slancio l’8% il mese scorso. Ancora più macroscopico è il fenomeno negli Stati Uniti, dove Bloomberg stima che il 20% del controvalore degli scambi avvenga su mercati non trasparenti.
-Cosa c’entrano le dark pools con il crollo di Borsa? 
Il problema delle dark pools è che oggi - con i loro misteriosi prezzi - sono diventate così importanti da confondere e a volte persino distorcere i prezzi reali. 
Qual è la quotazione giusta? Quella che vedo sulla normale Borsa o quella che è appena passata con un ordine colossale sulla dark pool? Le piattaforme oscure, inoltre, in momenti di grande stress sui listini, possono inoltre contribuire al caos: non sono trasparenti, non sono adeguatamente regolamentate e - considerando la mole di transazioni - rischiano di trascinare con loro il resto del sistema finanziario, a partire dalle normali Borse.

3.Dsc e capitalismo finanzio 

Il pensiero di Benedetto XVI sulla crisi finanziaria globale espresso nella Caritas in veritate, viene sicuramente arricchito dall’esame di due documenti del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Il primo (PCGP 2011) ha come oggetto la crisi economica e finanziaria e le riforme necessarie per la sua soluzione, mentre il secondo (PCGP 2013) si occupa dell’impresa, anche se non mancano allusioni alla crisi. 
A differenza della CV, PCGP 2011 contiene un’analisi tecnica più dettagliata della crisi e una forte denuncia delle disuguaglianze che ha provocato. Sebbene vi si percepisca facilmente l’eco dell’enciclica di Benedetto XVI, il fatto che non sia un documento papale ne spiega il tono più concreto e incisivo. 
Il documento concentra le sue denunce su un liberismo economico senza regole né controlli, inteso come ideologia che ispira l’economia internazionale. Il giudizio è molto severo: «Si tratta di una ideologia, di una forma di “apriorismo economico”, che pretende di prendere dalla teoria le leggi di funzionamento del mercato e le cosiddette leggi dello sviluppo capitalistico esasperandone alcuni aspetti. Un’ideologia economica che stabilisca a priori le leggi del funzionamento del mercato e dello sviluppo economico, senza confrontarsi con la realtà, rischia di diventare uno strumento subordinato agli interessi dei Paesi che godono di fatto di una posizione di vantaggio economico e finanziario» (n. 1). 
Il documento propone una serie di proposte:
– separare il mestiere della banca di deposito da quello della banca d’affari o d’investimento;
– gli interventi dello Stato per salvare e ricapitalizzare banche in difficoltà non possono essere, come sono stati nel 2008-2009, eseguiti senza condizioni. Un intervento pubblico nelle banche in difficoltà deve essere subordinato a condizioni rigorose nella “governance”, per assicurare il controllo dell’impiego che verrà fatto del denaro dei contribuenti. Non possiamo continuare a socializzare le perdite e privatizzare i profitti;
– imporre una tassa modesta, ma globale e uguale per tutti sulle transazioni finanziarie su tutte le piazze finanziarie. 
Se l’avessimo fatto a partire dal 2007 il debito sovrano che tanti problemi ha sollevato sarebbe stato contenuto ed avremmo ridotto la propensione dei banchieri a giocare al casinò, rispetto a quello di fare il mestiere di banchiere.
4.Conclusione.
Quello che non sappiamo è piuttosto come farlo e con chi. 
La grande illusione che molti ancora coltivano, è che ci penseranno i banchieri e i gestori della finanza ombra a gestire meglio le cose con un maggiore senso di responsabilità. 
Molti, però, si sono resi conto che aspettare dai banchieri e dai gestori della finanza ombra un esercizio di responsabilità, è pretendere da loro un atto contro natura. 
Ed allora ci si è rifugiati nella illusione tecnocratica. 
Saranno i grandi tecnocrati, i rappresentanti delle banche centrali, gli alti dirigenti bancari, i grandi accademici, i grandi funzionari pubblici, a mettere le cose a posto. La lotta in corso dal 2008 contro le lobby bancarie, la strenua difesa da loro esercitata contro ogni ragionevole proposta di correzione e l’arrendevolezza dei tecnocrati ci dimostrano che anche l’illusione tecnocratica non funziona.
Per la semplice ragione che non si tratta di questioni tecnocratiche, ma di conflitto politico, di scontro di interessi, di conflitti di classe, che trova la sua radice nell’avidità patologica.
La madre di tutte le battaglie non è legata a questa o quella soluzione tecnica, ma, innanzi tutto, a combattere e far regredire la visione di una mondo totalmente finanziarizzato, con tutta la rivoluzione culturale per riconquistare posizioni per il lavoro e la dignità del lavoro, a far rinascere visioni di lungo termine, a prendere atto che senza la cultura del bene comune non può esiste una società civile giusta ed equa. 
Ed è qui il vulnus che rende questa una rivoluzione culturale certamente non facile . 
Ma se non riusciremo ad innescare questo processo virtuoso, ci arrotoleremo di crisi in crisi, e saremo sempre sotto in balia della società del rischio. 
Una delle caratteristiche che distinguono la crisi del capitalismo finanzio dagli anni settanta del secolo scorso rispetto a quelle del capitalismo è il senso di impunità che accompagna i principali protagonisti negli USA, in Europa e in Italia. 
4.1.La responsabilità dei cristiani 
Nella liquidità del pensiero esistente, nel dominio ideologico del tecnonichilismo a matrice neoliberista, nell’urgenza di una grande correzione di marcia per tentare di evitare lo scontro contro un nuovo iceberg, nella necessità di accendere una nuova speranza ed indicare nuove vie per le nuove generazioni, grande è la responsabilità dei cristiani, e soprattutto dei cattolici. 
Le opposizioni di sinistra e di stampo marxista al neoliberismo e al capitalismo finanziario si sono sciolte come neve al sole o, meglio, hanno scelto di diventare loro stesse parte integrante del pensiero del neoliberismo.
La responsabilità dei cristiani e dei cattolici è dunque grande perché il pensiero cristiano e, in particolare, quello cattolico della Dsc (DSC), è l’unico che si pone in conflitto esistenziale con la ideologia del neo-liberismo e con le sue pratiche di capitalismo finanziario selvaggio. 
Nel capitolo secondo della Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium”, papa Francesco ha pronunciato quattro formidabili NO:
– NO a un’economia dell’esclusione
– NO alla nuova idolatria del denaro
– NO a un denaro che governa invece di servire
– NO all’iniquità che genera violenza “
Dietro a questi NO non chiama in causa solo i cattolici, ma anche tutti coloro che credono al valore della democrazia, ad un’economia civile di mercato, ad un’economia libera e imprenditoriale nel senso del paragrafo 42 della Centesimus Annus, ad un’economia guidata dal lavoro, dalla dignità del lavoro, dalla dignità dell’uomo che lavora, dai principi della nostra Costituzione. 
Il pensiero economico-sociale cattolico si è sempre battuto per porre al centro non il “capital gain” ma la dignità dell’uomo, per difendere la proprietà privata, intesa come strumento di libertà di ogni singolo uomo e non di accaparramento, per combattere la concentrazione delle ricchezze, per favorire una efficiente ed efficace competitività solidale, per sostenere il principio di sussidiarietà contro la concentrazione di ogni tipo di potere. 
Per questo dietro quei NO si schierano non solo i cattolici osservanti ma i grandi liberali ortodossi, da Einaudi a Sturzo e si schierano i grandi pensatori dell’Economia sociale di mercato come Roepke. 
Per esprimere ed assolvere la nostra responsabilità, per rispondere alla nostra “vocazione” siamo chiamati a superare due ostacoli concettuali.
Il primo è di esercitare veramente un servizio alla verità, alla quale ci richiama l’esortazione apostolica di papa Francesco.
Il secondo è di avere coraggio intellettuale, di non avere paura di entrare nel vivo delle cose, di non farsi intimidire dai tecnicismi e dal laicismo culturale. 
Non dobbiamo aver paura di sentirci dire l’antico adagio, “Silete theologi in munere alieno”, e in tal modo aver paura di essere accusati di volerci occupare di cose, che a loro avviso,   non sono di nostra competenza.
La Chiesa, come ribadisce Papa Francesco, deve avere la forza profetica di prendere posizione su ogni tema. 
Difatti come è possibile impegnarsi per una società a misura d’uomo, per la sua dignità, per la sua vocazione, senza entrare nelle soluzioni, senza prendere posizione, anche tecnica, sui problemi concreti, come, ad esempio, quelli trattati in questa relazione che sono temi di vita e di morte per milioni di persone, senza condannare certe cose ed appoggiarne altre? 
Ed in ogni caso, se per la Chiesa in senso stretto, come polis, può essere giustificata una certa cautela, per la comunità dei cristiani, cioè per la Chiesa come popolo di Dio, questa timidezza diventa complicità o peccato di omissione. 
Come possiamo stare zitti di fronte ad un pensiero socio-economico che si spinge sempre più verso una società incivile, verso un capitalismo barbaro, violento e fonte di corruzione, che è in contraddizione profonda non solo con la DSC ma con tutti i grandi pensatori ed operatori cattolici e cristiani, dalla scuola economica francescana alle reducciones dei gesuiti, da Giovanni Bosco a Rosmini, da Luigi Einaudi a Don Sturzo, da Adenauer a De Gasperi, da Bonhoeffer a Padre Bartolomeo Sorge?
Per fortuna anche qui ci vien in aiuto l’esortazione apostolica di papa Francesco:
“L’insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali.
182. Gli insegnamenti della Chiesa sulle situazioni contingenti sono soggetti a maggiori o nuovi sviluppi e possono essere oggetto di discussione, però non possiamo evitare di essere concreti – senza pretendere di entrare in dettagli – perché i grandi principi sociali non rimangano mere indicazioni generali che non interpellano nessuno. Bisogna ricavarne le conseguenze pratiche perché “possano con efficacia incidere anche nelle complesse situazioni odierne25 . I Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose “perché possiamo goderne” (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare “specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune”[26].
183. Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di San Francesco d’Assisi e della beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. sebbene “il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica”, la Chiesa “non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia”. Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Di questo si tratta, perché il pensiero sociale della Chiesa è in primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione trasformatrice, e in questo senso non cessa di essere un segno di speranza che sgorga dal cuore pieno d’amore di Gesù Cristo”.EG
Dunque, senza timidezze e servilismi, ai quali una certa Chiesa ci ha abituato, diciamo alto e forte, facendo nostro quanto ha affermato Papa Francesco il 7.2.2015 nel videomessaggio ai 500 esperti sul tema Expo 2015: “Nutrire il pianeta, Energia per la Vita”, in cui ha affermato  a non cedere “all'economia dell'esclusione e della iniquità”. Perché questa “uccide”. Parole dirompenti, che si trovano nella Esortazione “Evangelii gaudium” n.53 la sua massima espressione: “Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole”.

Carmine Tabarro



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