Segue il documento guida originale che il dott. Tabarro ci ha gentilmente concesso per condividere la sua lezione.
Buongiorno a tutti.
Grazie per questo invito
(un grazie particolare a don Sandro Fadda), perché giornate come queste
rientrano nel campo della mia ricerca sull’Economia di Civile, quindi sono un
sostenitore culturale, ideale, di iniziative concrete come le
vostre.
Desidero ringraziare
perché, con l’affermarsi della società moderna l’idea stessa di bene comune e
di “corpo sociale” è andata in crisi
L’idea classica di bene
comune, da Aristotele a San Tommaso, immagina una comunità, un popolo, come un
corpo: il bene del corpo coincide con il bene delle singole membra e non
viceversa. Da qui la definizione classica di bene comune, che ritroviamo anche
nella Dsc (Dsc) oggi, “Il bene di tutti e di ciascuno”: il bene di ogni
membro del corpo è direttamente il bene di tutte le altre membra e del corpo
intero. La filosofia
utilitaristica che oggi sembra aver avuto la meglio opera una cesura radicale
tra bene comune e bene totale a vantaggio di quest’ultimo.
Con l’affermarsi del
postmoderno anche i residui concetti di bene comune, di matrice
cattolici-comunitari, che come un fiume carsico, dal XII secolo con la scuola
economica francescana, sono stati travolti dal tecnonichilismo. Per questo sono grato
a “giornate” di riflessione, di studio, di formazione
teorico-pratiche, di scambio culturale transdisciplinare, perché a mio avviso
sono capaci di innescare quei processi virtuosi che riportano al centro
della società civile, della politica, dell’economia ecc., la rivalutazione
e la rilettura dei beni comuni nell’epoca del postmoderno. Inoltre giornate di
studio e di riflessione sulla società civile, sulla politica, sull’economia
alla luce della Dsc sono un laboratorio, un luogo proficuo per far crescere un
pensiero orientante capace di produrre proposte concrete per far crescere una
società, una politica, una economia civile e risvegliare i corpi intermedi
della società, i cittadini, del nostro Paese affinché possano dispiegare
tutta la loro potenzialità non ancora completamente dispiegata al servizio dei
beni comuni. Il tema che mi ha
affidato don Sandro, la finanza ombra richiederebbe diversi giornate di
studio per sviluppare solo i vari aspetti e i temi (riciclaggio,
antiriciclaggio, gioco d’azzardo, paradisi fiscali, banche ombra cfr Cina). Pertanto, mi
soffermerò solo sulla dimensione più conosciuta dal grande pubblico della
finanza ombra.
0.Premessa
Permettetemi una
premessa, gli economisti civili, nell’analizzare i problemi che sono chiamati a
valutare, non si limitano ad analizzare l’economia come “scienza triste”’, ma
attraverso il dialogo con le altre scienze umane vogliamo che questa torni ad
essere la scienza della felicità pubblica di cui l’abate Antonio Genovesi
è stato il padre. Genovesi affermava: “Si ricordi l’homo homini lupus è un
pensiero profondamente errato. L’uomo è homo homini natura amicus, l’uomo è per
natura amico degli altri uomini, è un essere relazionale, è un essere votato
alla felicità, alla felicità sociale”.
Ma oggi, è ancora
possibile parlare di economia come scienza della felicità pubblica?
Per millenni la nostra
civiltà si è nutrita su due pilastri culturali: il doppio comandamento che ha
alimentato l’ethos ebraico-cristiano: ama Dio e ama il prossimo tuo come te
stesso; e sul pilastro della filosofia nichilista che ha in Gorgia il suo padre
filosofico (per il quale "nulla è; se anche fosse, non sarebbe
conoscibile; se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile”).
Con l’affermarsi della
scienza moderna prima, e poi a partire dall’Ottocento, questo ethos culturale
trova la sua affermazione in Nietzsche che definisce il nichilismo, “il più
inquietante degli ospiti”. Sempre Nietzsche scrive che nel: “Nichilismo: manca
lo scopo, manca il perché, tutti i valori si svalutano”.
Dal canto suo Heidegger
afferma che il nichilismo “gira per la casa ed è inutile metterlo alla porta,
ma bisogna guardarlo davvero in faccia”.
Tutto questo ha fatto
dire a Nietzsche che “Dio è morto”, con l’affermazione della società
postmoderna è tempo di dire quello che tutti vediamo, “È morto anche il
prossimo”.
Siamo diventati
indifferenti nei confronti del prossimo, non riusciamo più a farci prossimi a
nessuno.
La parola ebraica réac
nel Levitico, e quella greca plesíos, nel Vangelo di Luca, vogliono dire
proprio questo: “l’altro che ti sta vicino”.
Purtroppo quello a cui
stiamo assistendo in tutti i campi dell’umano, — in modo così prossimo e
sconvolgente, in particolare nelle ultime settimane, ci svela il vero volto
della nostra epoca che è segnata dalla “paura e dall’incertezza”, che i
sociologi hanno declinato come: “società liquida”, “società del rischio”,
società dei “non luoghi”, le cui eziopatologie sono da ricercare
nell’affermazione della cultura della “mancanza di senso”, dall’affermarsi di
quello che Nietzsche chiama "il più inquietante fra tutti gli ospiti: il
nichilismo”.
Come detto, per
l'intero arco della storia della filosofia, l’”ospite inquietante” ha fatto
sempre sentire la sua presenza, ma solo oggi, solo nel nostro tempo, questa
presenza culturale è divenuto il clima biologico della terra, che sta generando
lo spaesamento di tutti i paesaggi che la nostra civiltà (tra cadute e
riprese) ha di volta in volta faticosamente costruito per abitare la terra in
modo più pieno e migliore.
Ma perché proprio
oggi?
Le conseguenze a livello culturale
Nel mondo governato
dal tecnonichlismo, l'efficacia degli imperativi morali è pari a quella dei
freni di bicicletta montati su un jumbo.
Nel dizionario della
cultura tecnonichilista, concetti come il personalismo cristiano, il bene
comune, l’umanesimo integrale, la sussidiarietà, i valori, le virtù, la morale,
sono stati espulsi, non hanno diritto di cittadinanza.
Il paradigma
tecnico-scientifico, infatti, non si propone alcun fine valoriale da
realizzare, ma solo l’utilità dei risultati da raggiungere come esiti delle sue
procedure. Questa abolizione dei fini destituisce, fin dalle sue fondamenta,
ogni possibile ricerca di senso per l’uomo l'occidentale, cresciuto nella
"cultura del senso" secondo la quale la vita è vivibile solo se
inscritta in un orizzonte di “senso”, di “significati”.
A questo tipo di
domanda il tecnonichilismo non risponde, perché la categoria del senso non
appartiene alle sue competenze. Nella cultura contemporanea la tecnica è
diventata la forma del mondo, l'ultimo orizzonte al di là di tutti gli
orizzonti, le domande intorno al senso vagano affannose e senza risposta. Una
cultura dominata dal pensiero del “non senso” che sta generando la crisi di
civiltà che stiamo vivendo con tutte le sue tristi conseguenze.
Le conseguenze a livello sociale
L’affermazione del
tecnonichilismo ha profondamente indebolito i legami interpersonali, ha reso
“liquide” le nostre comunità, che sempre più spesso si stanno
trasformando in un “comunitarismo tribale” come frutto patologico dell'io e del
noi, che esalta il proprio egoismo ed ha sostituito la solidarietà e fraternità
umana con la competizione senza limiti, fino a ad affidare nelle mani di
singoli la risoluzione di problemi complessi e di ampia rilevanza
sociale. Non solo.
Non è un caso se, alla
fine dell’Ottocento, Freud inventa la psicoanalisi, che si diffonde
prepotentemente nel secolo XX. Freud evidenzia come
l’isolamento dell’uomo avanza, solitudine che lo rende patologico. Le persone più sensibili
sono lacerate da una sofferenza cui si assegna il nome di nevrosi. Attraverso
la psicoanalisi si cerca di ricostruire un rapporto umano, non con “il
prossimo”, con l’altro, ma con un professionista. L’uomo invece, ha bisogno di
vicinanza, di prossimità in maniera così violenta, che tra paziente e
professionista viene spesso a crearsi un eccesso di intimità: questo è chiamato
transfert e considerato a sua volta nevrotico. Freud suggerisce
tecniche per contenerlo. Fa stendere il paziente su un divano per allontanare
il suo sguardo: massima espressione dell’indifferenza e/o della paura
dell’altro.
In questo clima
culturale liquido e senza regole se non la ricchezza elogiatrice di pochi,
nasce e si sviluppa la finanza ombra.
2.Finanza ombra
Una premessa
metodologica: nella seconda parte del mio intervento sentirete parlare di
banchieri e finanza ombra, perché come vedremo le due figure non sempre
collimano.
Mentre per i primi
esiste, come vedremo delle forme di controllo, nel caso della finanza ombra i
flussi finanziari di capitale che circolano sono al di fuori della pur modesta
presa dei regolatori, ossia dell’autorità di vigilanza.
Inizio questa seconda
parte del mio intervento, parafrasando la frase di Jacques Laffitte (banchiere
e politico), pronunciata alla fine della Rivoluzione francese nel Luglio del
1830, molto attuale anche nel nostro tempo: “D’ora innanzi regneranno i
banchieri e istituzioni finanziarie ombra”. Ancora oggi, i banchieri e
soprattutto come vedremo le istituzioni che governano la finanza ombra,
dominano la politica nel mondo, non perché abbiano sopraffatto la politica, ma
perché la politica ha aperto loro le porte.
Sto scrivendo questo
intervento sabato 30.7. giorno seguente agli stress test della BCE ed (abbiamo
alle spalle la crisi finanziaria del 2007) è possiamo sicuramente affermare che
la storia non ha insegnato nulla e la crisi strutturale non ha fatto altro che
ingrandirsi con il tempo, sebbene, va ricordato, nel corso del Novecento ad
essa sia stato posto rimedio (sia pure per un breve periodo): il New Deal
rooseveltiano fu in primo luogo un riuscito imbrigliamento della finanza, la
cui sregolatezza aveva provocato la crisi del 1929. Questo è un segno del
fatto che la politica, oltre ad aprire le porte alla finanza, quando vuole
riesce anche a chiuderle.
Facciamo un ulteriore
passo in avanti: sentiamo sempre più spesso parlare di shadow banking negli
ambienti finanziari internazionali.
2.1.Ma che cos'è lo shadow banking?
Il sistema bancario
ombra raggruppa una serie di istituzioni e di pratiche basate sull'utilizzo di
derivati finanziari che si collocano al di fuori dalla regolamentazione e
dell'attenzione pubblica. Quest'assenza di regole ha facilitato la sua rapida
espansione.
L’espressione coniata
dal Financial Times e dalla Banca Mondiale sta ad indicare gli strumenti del
mondo finanziario completamente diversi da quelli che vengono normalmente
utilizzati nei canali tradizionali.
Volendo elencare nello
specifico tali strumenti dovremmo così parlare del private equity, del venture
capital e del crowdfunding, sistemi bancari paralleli
E' utile dare una breve
definizione degli strumenti di cui sopra:
- Private Equity: è un'attività finanziaria mediante la quale un investitore istituzionale rileva quote di una società definita target (ossia obiettivo) , ciò avviene sia acquisendo azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione apportando nuovi capitali all'interno della target.
- Venture Capital: Il venture capital è l'apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Un fondo di venture capital investe principalmente in capitale finanziario nelle imprese che sono troppo rischiose per i mercati dei capitali standard o dei prestiti bancari.
- Crowdfunding: o finanziamento collettivo in italiano, è un processo collaborativo di un gruppo di persone che utilizza il proprio denaro in comune per sostenere gli sforzi di persone e organizzazioni. È una pratica di micro-finanziamento dal basso che mobilita persone e risorse. Il termine trae la propria origine dal crowdsourcing, processo di sviluppo collettivo di un prodotto.
Questi innovativi e non
convenzionali strumenti finanziari hanno creato una grande quantità di denaro
che, sorprendentemente, e a differenza di quanto si può affermare del sistema
bancario tradizionale, non cessa di crescere.
2.2 Dark pools
Ma procediamo con
ordine
Una prima riflessione.
Per prima cosa, la
crisi finanziaria iniziata nell’estate del 2007 negli Usa e poi diffusasi per
contagio nel resto del mondo, ha natura sistemica.
La crisi finanziaria
del 2007 non è una crisi congiunturale né una crisi regionale, ma una crisi
strutturale.
Essa è il punto di
arrivo di un processo che da oltre quarant’anni ha modificato alla radice il
modo di essere e di funzionare anche della finanza, minando così le basi stesse
di quell’ordine sociale liberale che è la cifra inequivocabile del modello di
civiltà occidentale.
Due sono gli elementi
strutturali della crisi: quelle prossime, che dicono delle peculiarità
specifiche assunte in tempi recenti dai mercati finanziari e quelle profonde,
che chiamano in causa gli aspetti di matrice culturale di cui ho detto in
premessa che ha accompagnato la transizione dal capitalismo industriale a
quello finanziario. Da quando ha iniziato a prendere forma quel fenomeno di
portata epocale che chiamiamo globalizzazione, la finanza grazie anche alla
rivoluzione tecnologica, non solamente ha accresciuto costantemente la sua
quota di attività in ambito economico, ma ha progressivamente contribuito a
modificare sia le mappe cognitive delle persone sia il loro sistema di
valori.
E’ a quest’ultimo
aspetto che si fa riferimento quando oggi si parla di finanziarizzazione
(financialization) della società. “Finanza”, letteralmente, è tutto ciò che ha
un fine; se questo fuoriesce dal suo alveo storico, la finanza non può che
generare effetti perversi.
Un secondo punto. Con
l’avvento del postmoderno, il mix di globalizzazione e tecnonichilismo
finanziario, ha travolto il potere degli Stati.
Gli stati-nazione
avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale.
Ma questo meccanismo è
stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione
ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica.
I governi non hanno
più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei
territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche,
dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo…
Questi tipo di
globalizzazione anarchica ha trasformato le multinazionali e i centri di potere
occulti, in un “non-luogo” del diritto, lasciando i mercati finanziari e
i loro protagonisti, che ne hanno approfittato, privi di regole, di
massimizzare i profitti a danno del bene comune.
Ogni singolo potere,
si fa beffa facilmente delle regole e del diritto locali e a anche dei governi.
La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla
crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia ecc.
In tal senso,
Benedetto XVI nella Caritas in veritate, denuncia il tipo di
globalizzazione (CV, n. 33), considerata non solo un fenomeno economico, ma
anche culturale. Il Papa non vuole che sia interpretata con un atteggiamento
fatalistico, che ci condanna a vivere in balia di forze anonime e
incontrollate, ma come un processo guidato dalle decisioni di esseri umani (CV,
n. 42).
I riferimenti alla
crisi presenti nella enciclica ci consentono, a ogni modo, di ricostruirne una
visione sufficientemente sistematica. Anche se presentata come crisi
economico-finanziaria, essa non è solo il risultato di eventi verificatisi nel
mondo della finanza. Bisogna andare più in profondità e considerarla come
un’espressione della gravità di un processo giunto ai suoi esiti estremi, le
cui radici storiche erano già state denunciate dalla Populorum progressio.
Un aspetto della crisi
che la CV sottolinea con forza è il venir meno della fiducia, che ha colpito in
particolare il mondo della finanza (CV, n. 35). In contesti diversi vengono
denunciati altri due aspetti problematici: la speculazione, che cerca
unicamente il guadagno a breve termine (CV, n. 40), e l’abuso di
sofisticati strumenti finanziari (CV, n. 65). Il papa emerito propone
meritoriamente, ma per ora ancora poco ascoltato, un’ampia riforma della
governo mondiale della finanza“di fronte all’inarrestabile crescita
dell’interdipendenza mondiale, […] anche in presenza di una recessione
altrettanto planetaria”. CV n.67
Una terza riflessione.
Il capitalismo finanziario ha creato un’economia immaginaria, virtuale,
spostando capitali (spesso virtuali e a leva) da un posto all’altro e
guadagnando sulla speculazione di beni, servizi, merci, valute, ecc.
Il capitalismo
produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora
non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria
ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, alla finanza ombra.
-Crisi sistemica
Entriamo nello
specifico delle cause prossime, tecniche e politiche della crisi sistematica
iniziata non nel 2007 ma dagli anni settanta del secolo scorso che trovano
nell’eccesso di liquidità e dalla mancanza di regole la loro eziopatologia.
Difatti dalla
petrolifera degli anni ’70 del secolo scorso, a quelle di Messico, Brasile,
Russia e Corea degli anni ’80, e ancora quelle di Messico, Thailandia e
Argentina (anni ’90). Tutte rappresentano un precedente della crisi scoppiata
nel 2007 e sono accomunate da cause identiche: creazione smodata di denaro da
parte delle banche private e dalla mancanza di regole alla finanza ombra.
Identiche sono state anche le conseguenze: aumento delle disuguaglianze, non
solo nei Paesi in via di sviluppo ma anche in quelli sviluppati, errori tecnici
si sommano alle responsabilità politiche e morali.
E’ vero che la
disuguaglianza è antica quanto la società, perché differenze di potere e di
ricchezza hanno sempre caratterizzato la vita dell’uomo all’interno di una
comunità. La storia ci ha mostrato tre tipi di disuguaglianze: quella tra
individui di una stessa comunità (o Paese), quella tra nazioni e quella
diventata (postmoderna) più rilevante di recente: la disuguaglianza globale tra
tutti i cittadini del mondo.
Pertanto è
indispensabile una riforma radicale del sistema finanziario, di cui parlano in
molti oggi, ma di fatto mancano sia la volontà politica sia la capacità da
parte dei politici di comprendere quale enorme problema abbiamo dinanzi, per
cui le riforme di cui si parla a livello di G7 e G20, sono del tutto
inadeguate.
In altre parole, senza
una riforma radicale del sistema finanziario, che dovrebbe essere il primo
obiettivo delle istituzioni politiche internazionali, visto che di lì nascono i
nostri guai e senza interventi risolutivi, le cose andranno sempre peggio
sul fronte del lavoro, dell’economia, dello sviluppo, dello stato
sociale.
-La crescita dei
derivati nel periodo pre-crisi
Nati come strumenti di
copertura del rischio di credito, i derivati hanno conosciuto una espansione
imponente nel corso degli ultimi anni: da circa 100.000 miliardi di dollari nel
2001 a oltre 600.000 miliardi alla fine del 2007.
In termini relativi,
la crescita più consistente è stata quella dei CDS (Credit default swap),
passati, nello stesso periodo, da 750 miliardi di dollari a circa 59.000
miliardi – quasi quattro volte il PIL USA.
-Dopo quasi dieci anni
come vanno le cose?
Il giornalista
economico americano, Michael Snyder 2014, ha fatto uno studio sull'ultimo
rapporto trimestrale di un ente pubblico di controllo delle banche Usa,
l'Office of the Comptroller of the Currency (Occ). Nelle tabelle allegate al
rapporto, l'Occ rivela a quanto ammontano le esposizioni ai derivati delle
maggiori banche Usa.
Tenetevi forte:
ciascuna delle prime cinque banche ha un'esposizione ai derivati superiore a 40
mila miliardi di dollari (cioè 40 trilioni). Per avere un'idea di quanto sia
grande il loro azzardo morale, basta un solo paragone: l'intero debito
nazionale del Tesoro degli Stati Uniti è di 17.700 miliardi di dollari (17,7
trilioni), cioè meno della metà dell'esposizione ai derivati di una singola
banca.
Il primato di questa
follia spetta alla JP Morgan Chase, che, a fronte di asset complessivi propri
per appena 2,5 trilioni, ha un'esposizione ai derivati di 67 trilioni di
dollari. Seguono: Citibank, con un'esposizione di 60 trilioni (1,9 trilioni di
asset propri); Goldman Sachs con 54 trilioni di esposizione contro meno di un
trilione di asset propri; Bank of America con 54 trilioni di rischi sui
derivati contro 2,1 trilioni di asset; Morgan Stanley con oltre 44 trilioni di
esposizione a fronte di soli 831 milioni di dollari di asset propri.
A differenza delle
azioni e delle obbligazioni, scrive Morgan Stanley nel suo blog, “i derivati
non rappresentano investimenti in nulla: sono solo scommesse su ciò che accadrà
in futuro”.
Praticamente la
drammatica e recente storia non ha insegnato nulla: la finanza è governata con
le logiche del gioco d'azzardo legalizzato, e le banche too big to fail hanno
trasformato in maniera strutturale Wall Street nel maggior casinò nella storia
del pianeta. Quando questa bolla scoppierà (e scoppierà sicuramente), il dolore
che causerà per l'economia globale sarà maggiore di quanto le parole possano
descrivere.
Quale sia l'ammontare
mondiale dei contratti in derivati, non essendo previsto l'obbligo della loro
registrazione, è un mistero.
Il New York
Times, indica in 280 trilioni di dollari i derivati che sarebbero sui
libri contabili delle maggiori banche Usa. La seconda stima è della Banca dei
Regolamenti Internazionali, che stima in 710 trilioni di dollari il totale
mondiale, “somma che ha dell'incredibile”.
Dobbiamo dire che se è
vero che su queste scommesse, le grandi banche hanno fatto enormi profitti in
questi anni è altrettanto vero che hanno realizzato anche enormi perdite a
danno della collettività con gli enormi e inevitabili interventi statali.
Ancora un dato: il 28
luglio scorso uno studio di Mediobanca su un campione di 66 banche
internazionali (di cui 29 europee, quasi la metà del totale attivo di bilancio)
rivela che l’esposizione al rischio di mercato delle banche è ancora molto
elevata.
Il rischio derivati
pesa sul capitale netto delle banche europee per il 38%, 26% giapponesi,
18,5% Stati Uniti.
-Tra le prime dieci
banche a maggior rischio derivati sette sono europee e tre degli Stati Uniti.
Credit Suisse (87,9%
primo posto su capitale netto), Deutsche Bank (46,6% su capitale netto),
Barclays 51,5%, Royal Bank of Scotland 30,6%;BNP Paribas 52,1%; Hsbc bank
15,9%; Societè Generale 79,3%.
Il fair value dei
derivati in portafoglio delle banche europee alla fine del 2014 era di quasi 7
trilioni di euro, circa il doppio degli Stati Uniti.
Inoltre, le attività
di livello tre (asset illiquidi, privi di mercato e valutati in modo
discrezionale dai singoli istituti) rappresentavano il 20,6 per cento del
patrimonio complessivo, contro il 13,1 per cento delle banche americane.
E si badi che questi
dati sono fortemente influenzati dalle grandi banche francesi, tedesche e
inglesi che sono ancora orientate all’attività di investment banking.
Questi dati dimostrano
non solo che c’è ancora molto da fare per portare chiarezza nei bilanci bancari
europei, ma anche che i colossi del credito dei Paesi centrali e del Regno
Unito non hanno ancora definito una strategia adeguata alla nuova realtà del
dopo crisi. Paul Tucker, già responsabile della vigilanza britannica e ora a capo
del Systemic Risk Board, ha detto che occorre almeno una generazione per
adattarsi al “new normal” perché siamo di fronte ad una svolta epocale. Il
problema è che dall’inizio dell’ultima pagina della crisi sono trascorsi ormai
circa dieci anni e il recente studio di Mediobanca ci dimostrano che
assai poco è cambiato.
-Un rischio sistemico
si aggira per l’Europa e per il mondo.
Dettaglio importante
per noi europei: Deutsche Bank, come un super-hedge fund, ha emesso derivati
per 75mila miliardi di euro, 20 volte il Pil tedesco, quasi uguale al Pil
mondiale.
Dei 75mila miliardi di
euro di derivati, nel suo bilancio attuale pesano 32 miliardi di euro di
derivati ad alto rischio e un'altissima leva finanziaria: fatti due conti,
anche un calo del 4% del valore degli attivi potrebbe azzerare il capitale del
colosso tedesco. Da anni tiene a bilancio ingenti quantità di titoli tossici
classificati di livello 3. Ossia strumenti finanziari a cui non si riesce a
dare un prezzo perché non trattati sui mercati e non equiparabili ad altri
prodotti simili che invece lo sono. A quel punto è la stessa banca a decidere,
attraverso dei modelli interni e con ampio margine di discrezionalità, quale
valore attribuire a questi titoli.
Davanti a queste
cifre, gli investitori hanno quasi dimezzato il valore di Deutsche Bank, mentre
il Governo tedesco ha lanciato un'imponente guerra lampo per difendere il
simbolo della potenza finanziaria nazionale. anche la Commerzbank è fortemente
esposta sui derivati.
Il 30 giugno scorso le
azioni della Deutsche Bank hanno toccato i minimi storici a 12,83 euro. Il
Fondo monetario internazionale ha definito Deutsche quella che, tra le grandi
banche, “più di tutte contribuisce ai rischi sistemici”.
Le sei maggiori
Landesbanken tedesche, dopo aver bruciato agli inizi della crisi un terzo del
loro patrimonio per aver investito nei titoli strutturati americani, hanno
prodotto negli ultimi sette anni un modestissimo utile aggregato, pari allo 0,2
per cento dei ricavi, e hanno chiuso in rosso l’esercizio 2015.
2.2 Dark pools
Tra
gli strumenti innovativi della finanza ombra un ruolo sempre maggiore lo sta
ricoprendo la dark pools (letteralmente, “piscine oscure”)
Sono gigantesche
piattaforme finanziarie anche queste non trasparenti, esterne ai circuiti regolamentati.
Queste piattaforme
finanziarie non espongono pubblicamente i prezzi.
Queste piattaforme
vengono utilizzate dai grandi investitori istituzionali per concludere enormi
transazioni nel più totale anonimato. Con il grande vantaggio, rispetto alle
normali Borse, di minimizzare i costi della negoziazione e lo stesso impatto
sul mercato (il cosiddetto market impact).
Questo perché quando
un operatore istituzionale deve eseguire un ordine di grandi dimensioni,
finisce con il muovere il mercato a suo sfavore: acquistando in enormi quantità
provoca un rialzo delle quotazioni, mentre se vende i suoi maxi ordini
trascinano i prezzi al ribasso. Una dinamica che si fa sentire in particolare
su titoli poco liquidi, quelli per esempio di società a media o bassa
capitalizzazione. Nelle dark pools tutto questo invece succede in misura molto
minore, perché non si sa chi sta effettuando la transazione e a che prezzo. Ci
si muove, appunto, nell’oscurità.
Chi le ha messe in
piedi
Tutte le grandi banche
internazionali hanno le loro dark pools. Una ricerca di Bloomberg Intelligence,
basata su dati Finra e condotta il mese scorso, rivela che le maggiori
appartengono a Ubs (14,4% del totale), Credit Suisse (13,6%), IEX (10,7%,
l’unico non essere un grande istituto di credito), Deutsche Bank (7,6%), Morgan
Stanley (7,2%), Jp Morgan Chase (4,9%), Merril Lynch (4,8%) e Barclays (3,9%).
Il loro peso, cresciuto di anno in anno, nel 2015 è arrivato a rappresentare il
7,22% del valore degli scambi sulle Borse europee (dati Batz Europe), superando
di slancio l’8% il mese scorso. Ancora più macroscopico è il fenomeno negli
Stati Uniti, dove Bloomberg stima che il 20% del controvalore degli scambi
avvenga su mercati non trasparenti.
-Cosa c’entrano le
dark pools con il crollo di Borsa?
Il problema delle dark
pools è che oggi - con i loro misteriosi prezzi - sono diventate così
importanti da confondere e a volte persino distorcere i prezzi reali.
Qual è la quotazione
giusta? Quella che vedo sulla normale Borsa o quella che è appena passata con
un ordine colossale sulla dark pool? Le piattaforme oscure, inoltre, in momenti
di grande stress sui listini, possono inoltre contribuire al caos: non sono
trasparenti, non sono adeguatamente regolamentate e - considerando la mole di
transazioni - rischiano di trascinare con loro il resto del sistema
finanziario, a partire dalle normali Borse.
3.Dsc e capitalismo finanzio
Il pensiero di
Benedetto XVI sulla crisi finanziaria globale espresso nella Caritas in
veritate, viene sicuramente arricchito dall’esame di due documenti del
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Il primo (PCGP 2011) ha come
oggetto la crisi economica e finanziaria e le riforme necessarie per la sua
soluzione, mentre il secondo (PCGP 2013) si occupa dell’impresa, anche se non
mancano allusioni alla crisi.
A differenza della CV,
PCGP 2011 contiene un’analisi tecnica più dettagliata della crisi e una forte
denuncia delle disuguaglianze che ha provocato. Sebbene vi si percepisca
facilmente l’eco dell’enciclica di Benedetto XVI, il fatto che non sia un
documento papale ne spiega il tono più concreto e incisivo.
Il documento concentra
le sue denunce su un liberismo economico senza regole né controlli, inteso come
ideologia che ispira l’economia internazionale. Il giudizio è molto severo: «Si
tratta di una ideologia, di una forma di “apriorismo economico”, che pretende
di prendere dalla teoria le leggi di funzionamento del mercato e le cosiddette
leggi dello sviluppo capitalistico esasperandone alcuni aspetti. Un’ideologia
economica che stabilisca a priori le leggi del funzionamento del mercato e
dello sviluppo economico, senza confrontarsi con la realtà, rischia di
diventare uno strumento subordinato agli interessi dei Paesi che godono di
fatto di una posizione di vantaggio economico e finanziario» (n. 1).
Il documento propone
una serie di proposte:
– separare il mestiere
della banca di deposito da quello della banca d’affari o d’investimento;
– gli interventi dello
Stato per salvare e ricapitalizzare banche in difficoltà non possono essere,
come sono stati nel 2008-2009, eseguiti senza condizioni. Un intervento
pubblico nelle banche in difficoltà deve essere subordinato a condizioni
rigorose nella “governance”, per assicurare il controllo dell’impiego che verrà
fatto del denaro dei contribuenti. Non possiamo continuare a socializzare le
perdite e privatizzare i profitti;
– imporre una tassa
modesta, ma globale e uguale per tutti sulle transazioni finanziarie su tutte
le piazze finanziarie.
Se l’avessimo fatto a
partire dal 2007 il debito sovrano che tanti problemi ha sollevato sarebbe
stato contenuto ed avremmo ridotto la propensione dei banchieri a giocare al
casinò, rispetto a quello di fare il mestiere di banchiere.
4.Conclusione.
Quello che non
sappiamo è piuttosto come farlo e con chi.
La grande illusione
che molti ancora coltivano, è che ci penseranno i banchieri e i gestori della
finanza ombra a gestire meglio le cose con un maggiore senso di
responsabilità.
Molti, però, si sono resi
conto che aspettare dai banchieri e dai gestori della finanza ombra un
esercizio di responsabilità, è pretendere da loro un atto contro natura.
Ed allora ci si è
rifugiati nella illusione tecnocratica.
Saranno i grandi
tecnocrati, i rappresentanti delle banche centrali, gli alti dirigenti bancari,
i grandi accademici, i grandi funzionari pubblici, a mettere le cose a posto.
La lotta in corso dal 2008 contro le lobby bancarie, la strenua difesa da loro
esercitata contro ogni ragionevole proposta di correzione e l’arrendevolezza
dei tecnocrati ci dimostrano che anche l’illusione tecnocratica non funziona.
Per la semplice
ragione che non si tratta di questioni tecnocratiche, ma di conflitto politico,
di scontro di interessi, di conflitti di classe, che trova la sua radice nell’avidità
patologica.
La madre di tutte le
battaglie non è legata a questa o quella soluzione tecnica, ma, innanzi tutto,
a combattere e far regredire la visione di una mondo totalmente
finanziarizzato, con tutta la rivoluzione culturale per riconquistare posizioni
per il lavoro e la dignità del lavoro, a far rinascere visioni di lungo
termine, a prendere atto che senza la cultura del bene comune non può esiste
una società civile giusta ed equa.
Ed è qui il vulnus che
rende questa una rivoluzione culturale certamente non facile .
Ma se non riusciremo
ad innescare questo processo virtuoso, ci arrotoleremo di crisi in crisi, e
saremo sempre sotto in balia della società del rischio.
Una delle caratteristiche
che distinguono la crisi del capitalismo finanzio dagli anni settanta del
secolo scorso rispetto a quelle del capitalismo è il senso di impunità
che accompagna i principali protagonisti negli USA, in Europa e in
Italia.
4.1.La
responsabilità dei cristiani
Nella liquidità del
pensiero esistente, nel dominio ideologico del tecnonichilismo a matrice
neoliberista, nell’urgenza di una grande correzione di marcia per tentare di
evitare lo scontro contro un nuovo iceberg, nella necessità di accendere una
nuova speranza ed indicare nuove vie per le nuove generazioni, grande è la
responsabilità dei cristiani, e soprattutto dei cattolici.
Le opposizioni di
sinistra e di stampo marxista al neoliberismo e al capitalismo finanziario si
sono sciolte come neve al sole o, meglio, hanno scelto di diventare loro stesse
parte integrante del pensiero del neoliberismo.
La responsabilità dei
cristiani e dei cattolici è dunque grande perché il pensiero cristiano e, in
particolare, quello cattolico della Dsc (DSC), è l’unico che si pone in
conflitto esistenziale con la ideologia del neo-liberismo e con le sue pratiche
di capitalismo finanziario selvaggio.
Nel capitolo secondo
della Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium”, papa Francesco ha pronunciato
quattro formidabili NO:
– NO a un’economia dell’esclusione
– NO alla nuova idolatria del denaro
– NO a un denaro che governa invece di servire
– NO all’iniquità che genera violenza “
– NO a un’economia dell’esclusione
– NO alla nuova idolatria del denaro
– NO a un denaro che governa invece di servire
– NO all’iniquità che genera violenza “
Dietro a questi NO non
chiama in causa solo i cattolici, ma anche tutti coloro che credono al valore
della democrazia, ad un’economia civile di mercato, ad un’economia libera e
imprenditoriale nel senso del paragrafo 42 della Centesimus Annus, ad
un’economia guidata dal lavoro, dalla dignità del lavoro, dalla dignità
dell’uomo che lavora, dai principi della nostra Costituzione.
Il pensiero economico-sociale
cattolico si è sempre battuto per porre al centro non il “capital gain” ma la
dignità dell’uomo, per difendere la proprietà privata, intesa come strumento di
libertà di ogni singolo uomo e non di accaparramento, per combattere la
concentrazione delle ricchezze, per favorire una efficiente ed efficace
competitività solidale, per sostenere il principio di sussidiarietà contro la
concentrazione di ogni tipo di potere.
Per questo dietro quei NO
si schierano non solo i cattolici osservanti ma i grandi liberali ortodossi, da
Einaudi a Sturzo e si schierano i grandi pensatori dell’Economia sociale di
mercato come Roepke.
Per esprimere ed
assolvere la nostra responsabilità, per rispondere alla nostra “vocazione”
siamo chiamati a superare due ostacoli concettuali.
Il primo è di esercitare veramente un servizio alla verità, alla quale ci richiama l’esortazione apostolica di papa Francesco.
Il secondo è di avere coraggio intellettuale, di non avere paura di entrare nel vivo delle cose, di non farsi intimidire dai tecnicismi e dal laicismo culturale.
Il primo è di esercitare veramente un servizio alla verità, alla quale ci richiama l’esortazione apostolica di papa Francesco.
Il secondo è di avere coraggio intellettuale, di non avere paura di entrare nel vivo delle cose, di non farsi intimidire dai tecnicismi e dal laicismo culturale.
Non dobbiamo aver paura
di sentirci dire l’antico adagio, “Silete theologi in munere alieno”, e in tal
modo aver paura di essere accusati di volerci occupare di cose, che a loro
avviso, non sono di nostra competenza.
La Chiesa, come ribadisce
Papa Francesco, deve avere la forza profetica di prendere posizione su ogni
tema.
Difatti come è possibile
impegnarsi per una società a misura d’uomo, per la sua dignità, per la sua
vocazione, senza entrare nelle soluzioni, senza prendere posizione, anche
tecnica, sui problemi concreti, come, ad esempio, quelli trattati in questa
relazione che sono temi di vita e di morte per milioni di persone, senza
condannare certe cose ed appoggiarne altre?
Ed in ogni caso, se per
la Chiesa in senso stretto, come polis, può essere giustificata una certa
cautela, per la comunità dei cristiani, cioè per la Chiesa come popolo di Dio,
questa timidezza diventa complicità o peccato di omissione.
Come possiamo stare zitti
di fronte ad un pensiero socio-economico che si spinge sempre più verso una
società incivile, verso un capitalismo barbaro, violento e fonte di corruzione,
che è in contraddizione profonda non solo con la DSC ma con tutti i grandi
pensatori ed operatori cattolici e cristiani, dalla scuola economica
francescana alle reducciones dei gesuiti, da Giovanni Bosco a Rosmini, da Luigi
Einaudi a Don Sturzo, da Adenauer a De Gasperi, da Bonhoeffer a Padre
Bartolomeo Sorge?
Per fortuna anche qui ci
vien in aiuto l’esortazione apostolica di papa Francesco:
“L’insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali.
182. Gli insegnamenti della Chiesa sulle situazioni contingenti sono soggetti a maggiori o nuovi sviluppi e possono essere oggetto di discussione, però non possiamo evitare di essere concreti – senza pretendere di entrare in dettagli – perché i grandi principi sociali non rimangano mere indicazioni generali che non interpellano nessuno. Bisogna ricavarne le conseguenze pratiche perché “possano con efficacia incidere anche nelle complesse situazioni odierne25 . I Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose “perché possiamo goderne” (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare “specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune”[26].
183. Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di San Francesco d’Assisi e della beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. sebbene “il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica”, la Chiesa “non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia”. Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Di questo si tratta, perché il pensiero sociale della Chiesa è in primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione trasformatrice, e in questo senso non cessa di essere un segno di speranza che sgorga dal cuore pieno d’amore di Gesù Cristo”.EG
“L’insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali.
182. Gli insegnamenti della Chiesa sulle situazioni contingenti sono soggetti a maggiori o nuovi sviluppi e possono essere oggetto di discussione, però non possiamo evitare di essere concreti – senza pretendere di entrare in dettagli – perché i grandi principi sociali non rimangano mere indicazioni generali che non interpellano nessuno. Bisogna ricavarne le conseguenze pratiche perché “possano con efficacia incidere anche nelle complesse situazioni odierne25 . I Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose “perché possiamo goderne” (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare “specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune”[26].
183. Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio e far tacere il messaggio di San Francesco d’Assisi e della beata Teresa di Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che non è mai comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. sebbene “il giusto ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica”, la Chiesa “non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia”. Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Di questo si tratta, perché il pensiero sociale della Chiesa è in primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione trasformatrice, e in questo senso non cessa di essere un segno di speranza che sgorga dal cuore pieno d’amore di Gesù Cristo”.EG
Dunque, senza timidezze e
servilismi, ai quali una certa Chiesa ci ha abituato, diciamo alto e forte,
facendo nostro quanto ha affermato Papa Francesco il 7.2.2015 nel
videomessaggio ai 500 esperti sul tema Expo 2015:
“Nutrire il pianeta, Energia per la Vita”, in cui ha affermato a non
cedere “all'economia dell'esclusione e della iniquità”. Perché questa “uccide”.
Parole dirompenti, che si trovano nella Esortazione “Evangelii gaudium” n.53 la sua massima espressione: “Questa economia uccide. Non
è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano
ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa.
Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo,
quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel
gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia
il più debole”.
Carmine Tabarro
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